Fridays for future: sciopero per il clima

Come è nato e cosa è il movimento Fridays for Future

Gli inizi del movimento si possono individuare nel novembre 2015, quando per la prima volta cinquantamila giovani in tutto il mondo hanno saltato le lezioni in occasione della COP21, la conferenza sul clima dell’Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, per chiedere il 100% di energia sostenibile e l’utilizzo di fonti rinnovabili.

Non molto tempo dopo, il 20 agosto del 2018, l’allora sconosciuta quindicenne Greta Thunberg decide di non frequentare la scuola fino al 9 settembre, la data delle elezioni svedesi: con la sua protesta intende chiedere al governo di rispettare gli Accordi di Parigi sulla riduzione delle emissioni di CO2. Dopo le elezioni Greta torna a scuola, ma la sua determinazione è più forte che mai: decide di scioperare ogni venerdì in nome del clima.

La notizia della sua iniziativa fa il giro del mondo, e in poco tempo sempre più studenti decidono di seguire l’esempio di Greta, saltando le lezioni e manifestando ogni venerdì: si crea così un movimento spontaneo e pacifico, privo di leader ufficiali, che vede in Greta Thunberg un punto di riferimento.

Le manifestazioni prendono il nome di “Fridays fo Future” e in breve tempo si organizzano, si strutturano e si coordinano in tutto il mondo. Le proteste sono sia nazionali che internazionali, come quelle del 20 e del 27 settembre 2019 durante la Climate Action Week, che ha visto una partecipazione a livello globale di 7,6 milioni di persone.

Oggi si stima che nel corso degli anni i Fridays for Future abbiano coinvolto fino a 14 milioni di persone.

Quali sono gli obiettivi degli attivisti di Fridays for Future

Conosciuti anche come Climate Strike e Youth for Climate, i Fridays for Future intendono attirare l’attenzione del mondo politico per spingere i governi verso nuove politiche sia ambientali che sociali.

Le proteste, pacifiche e non violente, hanno l’obiettivo primario di esercitare una pressione morale nei confronti di politici, legislatori e mass media per ridurre le emissioni di CO2 e rispettare gli Accordi di Parigi sul Clima del 2015.

Gli Accordi di Parigi sul Clima

Gli Accordi stipulati a Parigi durante la COP21 si inseriscono nel contesto più ampio degli obiettivi dell’Agenda 2030: hanno l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale molto al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e limitando tale aumento a un massimo di 1,5°C. Il fine è di raggiungere il net zero, ossia ridurre a zero le emissioni nette di gas serra mondiali.

Tale patto è entrato in vigore nel 2016, quando è stato ratificato da parte di 55 nazioni, che rappresentano almeno il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra. Tutti i paesi dell’Unione Europea hanno accettato l’accordo, che ha un valore giuridico.

Non solo clima, ma anche giustizia sociale

Le manifestazioni dei Fridays for Future non si focalizzano solo sul clima, ma portano avanti anche una battaglia per i diritti umani: la giustizia climatica infatti non può prescindere dalla giustizia sociale, dal momento che il riscaldamento globale ha conseguenze dirette sull’esaurimento delle risorse, sullo sfruttamento umano e sulle migrazioni forzate dovute alle catastrofi naturali.

Chi partecipa alle manifestazioni del Fridays for Future

I protagonisti dei Fridays for Future sono prima di tutto i giovani studenti della Gen Z, ma con loro anche i Millennial sono parte attiva delle proteste.

In breve tempo sono nate organizzazioni parallele, come i Teachers for Future e i Parents for Future e come i gli Psychologists for Future, che vogliono aiutare il prossimo a prendere consapevolezza dei cambiamenti climatici.

Allo stesso tempo grandi ONG ambientaliste come Greenpeace, WWF e Legambiente danno il proprio supporto ai Fridays for Future grazie agli obiettivi comuni.

Il gruppo, che ha organizzazioni nazionali e locali, è aperto a chiunque voglia far parte del movimentocome dichiarato nel sito italiano ufficiale.

Come funzionano i Fridays for Future

Le manifestazioni sono fermamente pacifiche ed escludono qualsiasi forma di azione o reazione violenta, sia in termini verbali che fisici. L’obiettivo principale è evitare di suscitare risposte violente da parte degli interlocutori. Le modalità di protesta includono scioperi, presidi, cortei, lezioni in piazza, flashmob e sit-in.

In alcune circostanze, il movimento può ricorrere a blocchi, azioni più incisive con obiettivi ben definiti, ma sempre pacifiche e non violente, destinate a suscitare coinvolgimento emotivo e attenzione per la causa. Tali interventi richiedono un livello più elevato di rischio per i partecipanti e vengono attentamente pianificati da parte di persone preparate, al fine di garantire l’assenza di scontri o incidenti, specialmente in considerazione della presenza di minori.

Brand Sostenibili Economici (o NO?)

Il cambiamento proposto da un approccio sostenibile non riguarda solo l’inquinamento prodotto dalle fabbriche, ma soprattutto dalla modalità in cui vengono reperiti o ricavati i materiali e dalle condizioni dei lavoratori per l’intera filiera; inoltre è fondamentale l’eventuale presenza di avanzi delle produzioni che finiscono poi in discarica o in qualche caso vengono smaltiti in modo dannoso per l’ambiente.

La sostenibilità comporta sicuramente che il modello fast-fashion non sia tollerabile a livello ambientale, ma nemmeno che le condizioni di lavoro siano totalmente intollerabili lungo tutta la filiera. Questo modello però non è sostenibile. Ha infatti notevoli impatti ambientali, legati alle emissioni di gas serra, all’uso di suolo e al consumo di acqua, oltre che all’inquinamento delle falde acquifere e degli oceani. Inoltre, gli stabilimenti produttivi si trovano per lo più in Paesi in via di sviluppo dove non sempre vigono rigorose leggi in materia di diritto del lavoro molto lontani dalle politiche di altri brand che non sfruttano i lavoratori.

Ad oggi però l’unico impedimento per molte persone per l’acquisto di abbigliamento sostenibile è sicuramente dovuto dal prezzo; il costo è sicuramente più alto perchè il costo del lavoro è differente se si tratta di un artigiano che produce manualmente ogni capo rispetto ad una catena fast-fashion in cui spesso non si hanno forme di tutela sociale e nemmeno un salario equo.

Sicuramente però la qualità dei materiali e della produzione fanno la differenza e portano ad optare per un acquisto più consapevole di un minor numero di capi ma di qualità superiore.

Questo comporta che magari non esistono troppi Brand Sostenibili Economici (come potrebbero essere presenti nella catena fast-fashion) ma l’economicità del prodotto è dovuta all’utilizzo nel corso degli anni, e quindi un ammortamento del costo non proponibile con abbigliamento dal basso costo ma che dura una sola stagione.

OUTFIT SHOW BERGAMO

OUTFIT SHOW è un evento “all fashion“, dedicato a collezioni ed accessori uomo/donna, esposti in un ambiente dal layout essenziale. Come suggerisce il nome, presenta ogni genere di prodotto che possa essere utilizzato in combinazione con altri per comporre un “outfit”: abbigliamento, accessori, gioielli, make-up etc.

Nell’era dei social-network, ai protagonisti tradizionali dell’industria della moda, Brand e Buyer, si sono aggiunti gli Influencer: oggi la loro importanza è cresciuta al punto tale che ormai i budget pubblicitari di moltissime aziende sono trasferiti interamente sui socials. Il principale obiettivo di OUTFIT SHOW è quello di promuovere il più possibile i rapporti commerciali tra i Brand e gli Influencer, mettendoli per 3 giorni sotto lo stesso tetto a confrontarsi e parlare di moda. Per favorire la nascita di vere relazioni personali, quelle che i logaritmi degli insight-software non potranno mai creare.

Borse Milano

Abbiamo presentato ad Outfit show Bergamo le nostre borse ai vari influencer in un contesto dinamico di moda vicino a Milano

Potete visualizzare sul sito OUTFIT SHOW l’edizione di Marzo a Bergamo

NEL NOSTRO SHOP troverete tutte le creazioni presentate ad Outfit Show

 Moda e Stile Y2K 

Negli ultimi periodi si è visto un ritorno di interesse verso gli anni 2000, grazie ai vari social network la moda e stile Y2K è stata rivalorizzata dalla Gen-Z.

La moda solitamente è caratterizzata da ciclicità, alla fine tutto torna (o quasi).

Sono quindi tornate di moda magliette corte, pantaloni ampi e accessori anche quasi kitsch.

La moda Y2K era caratterizzata da una serie di eccessi riportati ai giorni nostri:

Pantaloni dritti, cardigan, gonne svasate, foulard e mini top in primis che sono un must-have degli anni duemila da avere assolutamente adesso.

E’ possibile quindi recuperare vecchi capi di quel periodo anche se alcuni brand stanno riproponendo le stesse linee.

Sicuramente in tema di sostenibilità spopola il riutilizzo di vecchi capi o anche la rimodulazione di vecchi tessuti di questo periodo

Green growth e SDG 12

Green growth

Green growth   è un termine per descrivere un ipotetico percorso di crescita economica sostenibile dal punto di vista ambientale. Si basa sulla consapevolezza che finché la crescita economica rimane un obiettivo predominante, è necessario separare la crescita economica dall’uso delle risorse e dagli impatti ambientali negativi. In quanto tale, Green growth è strettamente correlata ai concetti di economia verde e sviluppo a basse emissioni di carbonio o sostenibile. Uno dei motori principali del Green growth è la transizione verso sistemi energetici sostenibili. I sostenitori delle politiche di Green growth sostengono che politiche verdi ben implementate possono creare opportunità di occupazione in settori come le energie rinnovabili, l’agricoltura verde o la silvicoltura sostenibile e anche la moda.

SDG12

L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 12 (SDG 12 o Global Goal 12), intitolato “Consumo e produzione responsabili”, è uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dalle Nazioni Unite nel 2015. La formulazione ufficiale dell’SDG 12 è “Assicurare un consumo e una produzione sostenibili modelli”.

L’SDG 12 ha lo scopo di garantire un buon uso delle risorse, migliorare l’efficienza energetica, infrastrutture sostenibili e fornire accesso ai servizi di base, posti di lavoro verdi e dignitosi e garantire una migliore qualità della vita per tutti. L’SDG 12 ha 11 obiettivi da raggiungere almeno entro il 2030 e il progresso verso gli obiettivi viene misurato utilizzando 13 indicatori.

SDG 12 vuole garantire il benessere riducendo allo stesso tempo il consumo eccessivo delle risorse naturali. I modelli attuali di produzione e consumo comportano un notevole spreco di risorse ed il danneggiamento degli ecosistemi al livello globale.

Si stima che la popolazione mondiale raggiungerà i 9.600 milioni entro il 2050; con questa cifra occorrerebbero le risorse naturali di tre pianeti per far fronte alle necessità di impiego e consumo al livello globale.

È necessario usare in modo efficiente le risorse naturali , è quindi mportante cambiare il modello di produzione e le abitudini di consumo.

Con l’SDG 12 le Nazioni Unite aspirano a cambiare il modello attuale di produzione riducendo l’impiego di prodotti chimici eco-sostenibili e la diminuzione degli sprechi in generale. Nella promozione di un approccio efficiente, responsabile e sostenibile alle risorse naturali, questo SDG si rivolge sia alle imprese (processi produttivi), che alle persone (consumi e pratiche come il turismo sostenibile), ai Governi (al livello normativo/ad esempio, disincentivazione dell’uso dei combustibili fossili).

Ruolo delle imprese: le aziende che desiderano contribuire all’SDG 12 ed ottenere un vantaggio competitivo hanno a disposizione molte possibilità di azione, soprattutto quelle che operano nei settori alimentare, tessile o dei beni di consumo. Ad esempio, le imprese potrebbero ritirare gradualmente dal mercato quei prodotti o servizi che richiedono un eccessivo consumo di energia e di risorse naturali, favorendo progressivamente l’impiego di materiali riciclabili e biodegradabili nei propri processi produttivi. Scheda di approfondimento

Fashionrevolution

FashionRevolution è un movimento no-profit globale tra i più grandi al mondo, rappresentato da The Fashion Revolution Foundation e Fashion Revolution CIC con gruppi in più di 100 paesi nel mondo[1].

Gruppo di protesta #WhoMadeMyClothes

Fashion Revolution è portavoce di numerose campagne per riformare il sistema moda industriale, in particolare sull’importanza e la necessarietà di maggior trasparenza nella catena di approvigionamento della moda[1].

Sorto nel 2013, FashionRevolution ha designato l’anniversario del disastro del Rana Plaza in Bangladesh come FashionRevolution Day, durante il quale si tengono ogni anno eventi speciali proprio il 24 Aprile[2].

Il Fashion Revolution Day ricade annualmente il 24 aprile in concomitanza con l’anniversario del collasso del palazzo Rana Plaza avvenuto nel 2013, dove morirono 1133 persone e ci furono oltre 2500 feriti. Il Fashion Revolution Day è stato anche creato per sottolineare l’attuale emergenza climatica. è stata anche sottolineata la consapevolezza dello sfruttamento della filiera di fornitura. L’obiettivo del movimento è di cambiare il modo in cui i vestiti vengono prodotti e acquisiti[9]. Nel 2016 si è espanso/evoluto nella Fashion Revolution Week.

Storia

Fashion Revolution è stato fondato da Carry Somers e Orsola De Castro[6] nel 2013 dopo il disastro del Rana Plaza in Bangladesh.

Somers e De Castro hanno entrambe alle spalle una carriera nell’industria della moda. Durante i 20 anni precedenti, il marchio di moda di Somers, Patchacuti, è stato un pioniere per quanto riguarda la trasparenza nella catena di approvigionamento e De Castro ha lanciato e guidato il marchio pioniere nel riciclo From Somewhere dal 1997 fino al 2014[1][7].

Fashion Revolution è stata creata come una piattaforma per accademici, designer, scrittori, venditori e uomini e donne d’affari per incoraggiare le persone ad agire nell’industria della moda e rendere la moda più sostenibile.

Somers e De Castro hanno lanciato l’hashtag #WhoMadeMyClothes nel 2014[8].

L’organizzazione è stata fondata grazie a fondazioni private, sovvenzioni istituzionali, organizzazioni commerciali e donazioni dei cittadini.

Moda usa e getta, un problema sociale ma anche ambientale

La moda usa e getta o fast fashion è un sistema lineare che non prevede il ricilo o riutilizzo dei capi, tutto dovuto al fatto che la disponibilità è enorme e i prezzi sono bassissimi.
In questo modo la vita dei capi è di una stagione, in alcuni casi anche meno.


Il costo del capo non deve essere valutato soltanto in base ai materiali e alla manodopera (spesso sottopagata) ma anche in base al costo per l’ambiente.


Negli ultimi giorni anche sulle testate giornalistiche nazionali ( qui l’articolo sul sito rainews) si è parlato delle discariche presenti in tutto il mondo.


Discariche dove finiscono gli abiti che sono gli scarti dell’industria della moda e quindi si parla di fast fashion inquinamento in Cile ad esempio, diventato polo internazionale per la raccolta dei capi invenduti, prodotti in Cina, in Bangladesh e provenienti da Asia, Stati Uniti ma anche dall’Europa.


Delle circa 59000 tonnellate di vestiti che arrivano ogni anno una parte finisce nei negozi del Cile come abiti usati ma molti rimangono invenduti (circa 39000 tonnellate) e finiscono in queste discariche nel diserto.

Gli sprechi nella moda

Fast fashion, la moda dello spreco

Non si tratta certo di un segreto di stato, anzi. Si tratta di una verità abbastanza lapalissiana, che sta sotto gli occhi di tutti. Basta scorgersi un poco per poterla osservare: se, ogni anno, comprassimo collettivamente, qualcosa come 80 miliardi di nuovi capi di abbigliamento, ne dovremmo poi buttare, per fare spazio negli armadi, praticamente la stessa identica quantità. È un gioco a somma zero o se preferite una mera questione di spazi.

The True Cost. Il prezzo della moda

fast fashion

È da questa considerazione che nasce e prende forma The True Cost, un documentario scritto e prodotto negli USA e totalmente incentrato sul mondo della moda. Si tratta di un’inchiesta che cerca di rispondere a una domanda apparentemente semplice: chi è che paga davvero il prezzo per il nostro abbigliamento? A volte, scopriremo guardando il documentario, l’essere umano nella sua accezione di homo-consumatore, può essere davvero il peggior nemico di se stesso.
Secondo The True Cost, viviamo acquistando qualcosa come il 400 per cento in più di abbigliamento di quanto abbiamo fatto negli ultimi venti anni! Le cause? Sono molteplici e tutte ben spiegate all’interno del documentario. Certamente la maggior di parte di esse sono da ricercare nella caduta dei costi di produzione (e di conseguenza di acquisto) dei capi d’abbigliamento.

Da un grande consumo derivano grandi responsabilità

Ovviamente questo massiccio consumo porta con sé delle conseguenze che si rivelano in diversi modi in tutto il mondo, si pensi ad esempio allo sfruttamento della mano d’opera nei paesi in via sviluppo, e il documentario cercherà di svelarcele.
“Sono dell’opinione che che dopo ogni grande cambiamento, in qualsiasi settore esso avvenga, ci voglia del tempo per comprendere prima e studiare poi cosa è realmente accaduto”. A dirlo è Christina Dean, fondatore e CEO di Redress, un’organizzazione che focalizza il proprio core business sulla promozione della sostenibilità ambientale nell’industria della moda. Prosegue la Dean: “Penso che ora sia necessario e inevitabile un cambiamento, perché non si può negare che l’industria della cosiddetta fast fashion sta avendo un impatto enorme sui paesi in via di sviluppo”.

80 chili di rifiuti tessili in un anno

The True Cost sottolinea come il cittadino americano medio sia in grado di gettare circa 80 chili di rifiuti tessili ogni anno e di non pensare assolutamente al riciclaggio vestiti.

Questa cifra, moltiplicata per tutti i cittadini statunitensi significa oltre 11 milioni di tonnellate di rifiuti in più soltanto negli Stati Uniti d’America. La maggior parte di questi tessuti inoltre non sono biodegradabili e per questo rimarranno accumulati nelle discariche per un periodo di tempo indeterminabile ma che si può stimare attorno ai duecento anni, oltre che impattare l’ambiente con l’immersione di gas nocivi nell’aria.

“Basta posare il proprio sguardo dentro una discarica” aggiunge la Dean, “per verificare personalmente come la quantità di abiti e tessuti gettati via sia in costante aumento, sopratutto nel corso degli ultimi dieci anni , come una sorta di coda lunga e sporca nel settore della fast fashion”.

fast fashion, la moda dello spreco
La fast fashion, la moda dello spreco è la tendenza da cui prende forma The True Cost, un documentario inchiesta totalmente incentrato sul mondo della moda.

No alla moda dell’usa e getta

Secondo Lucy Siegle, il produttore esecutivo di The True Cost, pur sapendo che la nostra società sta esaurendo molte delle nostre risorse naturali e pur conoscendo l’imminente necessità di rendere il mondo un luogo migliore dove vivere, partendo magari proprio dall’ambiente che ci circonda, i consumatori continuano a sostenere la fast fashion.
“In questo modo” dice la Siegle “ci avviciniamo sempre di più al declino della nostra specie e metaforicamente gettiamo nel cestino anche gli ultimi residui di natura incontaminata e non curandocene sembriamo decisi a continuare a produrre sempre più materiali usa e getta. Non ha senso. La moda non deve mai e poi mai essere pensata come un prodotto usa e getta”.

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