Green growth e SDG 12

Green growth

Green growth   è un termine per descrivere un ipotetico percorso di crescita economica sostenibile dal punto di vista ambientale. Si basa sulla consapevolezza che finché la crescita economica rimane un obiettivo predominante, è necessario separare la crescita economica dall’uso delle risorse e dagli impatti ambientali negativi. In quanto tale, Green growth è strettamente correlata ai concetti di economia verde e sviluppo a basse emissioni di carbonio o sostenibile. Uno dei motori principali del Green growth è la transizione verso sistemi energetici sostenibili. I sostenitori delle politiche di Green growth sostengono che politiche verdi ben implementate possono creare opportunità di occupazione in settori come le energie rinnovabili, l’agricoltura verde o la silvicoltura sostenibile e anche la moda.

SDG12

L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 12 (SDG 12 o Global Goal 12), intitolato “Consumo e produzione responsabili”, è uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dalle Nazioni Unite nel 2015. La formulazione ufficiale dell’SDG 12 è “Assicurare un consumo e una produzione sostenibili modelli”.

L’SDG 12 ha lo scopo di garantire un buon uso delle risorse, migliorare l’efficienza energetica, infrastrutture sostenibili e fornire accesso ai servizi di base, posti di lavoro verdi e dignitosi e garantire una migliore qualità della vita per tutti. L’SDG 12 ha 11 obiettivi da raggiungere almeno entro il 2030 e il progresso verso gli obiettivi viene misurato utilizzando 13 indicatori.

SDG 12 vuole garantire il benessere riducendo allo stesso tempo il consumo eccessivo delle risorse naturali. I modelli attuali di produzione e consumo comportano un notevole spreco di risorse ed il danneggiamento degli ecosistemi al livello globale.

Si stima che la popolazione mondiale raggiungerà i 9.600 milioni entro il 2050; con questa cifra occorrerebbero le risorse naturali di tre pianeti per far fronte alle necessità di impiego e consumo al livello globale.

È necessario usare in modo efficiente le risorse naturali , è quindi mportante cambiare il modello di produzione e le abitudini di consumo.

Con l’SDG 12 le Nazioni Unite aspirano a cambiare il modello attuale di produzione riducendo l’impiego di prodotti chimici eco-sostenibili e la diminuzione degli sprechi in generale. Nella promozione di un approccio efficiente, responsabile e sostenibile alle risorse naturali, questo SDG si rivolge sia alle imprese (processi produttivi), che alle persone (consumi e pratiche come il turismo sostenibile), ai Governi (al livello normativo/ad esempio, disincentivazione dell’uso dei combustibili fossili).

Ruolo delle imprese: le aziende che desiderano contribuire all’SDG 12 ed ottenere un vantaggio competitivo hanno a disposizione molte possibilità di azione, soprattutto quelle che operano nei settori alimentare, tessile o dei beni di consumo. Ad esempio, le imprese potrebbero ritirare gradualmente dal mercato quei prodotti o servizi che richiedono un eccessivo consumo di energia e di risorse naturali, favorendo progressivamente l’impiego di materiali riciclabili e biodegradabili nei propri processi produttivi. Scheda di approfondimento

Fashionrevolution

FashionRevolution è un movimento no-profit globale tra i più grandi al mondo, rappresentato da The Fashion Revolution Foundation e Fashion Revolution CIC con gruppi in più di 100 paesi nel mondo[1].

Gruppo di protesta #WhoMadeMyClothes

Fashion Revolution è portavoce di numerose campagne per riformare il sistema moda industriale, in particolare sull’importanza e la necessarietà di maggior trasparenza nella catena di approvigionamento della moda[1].

Sorto nel 2013, FashionRevolution ha designato l’anniversario del disastro del Rana Plaza in Bangladesh come FashionRevolution Day, durante il quale si tengono ogni anno eventi speciali proprio il 24 Aprile[2].

Il Fashion Revolution Day ricade annualmente il 24 aprile in concomitanza con l’anniversario del collasso del palazzo Rana Plaza avvenuto nel 2013, dove morirono 1133 persone e ci furono oltre 2500 feriti. Il Fashion Revolution Day è stato anche creato per sottolineare l’attuale emergenza climatica. è stata anche sottolineata la consapevolezza dello sfruttamento della filiera di fornitura. L’obiettivo del movimento è di cambiare il modo in cui i vestiti vengono prodotti e acquisiti[9]. Nel 2016 si è espanso/evoluto nella Fashion Revolution Week.

Storia

Fashion Revolution è stato fondato da Carry Somers e Orsola De Castro[6] nel 2013 dopo il disastro del Rana Plaza in Bangladesh.

Somers e De Castro hanno entrambe alle spalle una carriera nell’industria della moda. Durante i 20 anni precedenti, il marchio di moda di Somers, Patchacuti, è stato un pioniere per quanto riguarda la trasparenza nella catena di approvigionamento e De Castro ha lanciato e guidato il marchio pioniere nel riciclo From Somewhere dal 1997 fino al 2014[1][7].

Fashion Revolution è stata creata come una piattaforma per accademici, designer, scrittori, venditori e uomini e donne d’affari per incoraggiare le persone ad agire nell’industria della moda e rendere la moda più sostenibile.

Somers e De Castro hanno lanciato l’hashtag #WhoMadeMyClothes nel 2014[8].

L’organizzazione è stata fondata grazie a fondazioni private, sovvenzioni istituzionali, organizzazioni commerciali e donazioni dei cittadini.

Moda usa e getta, un problema sociale ma anche ambientale

La moda usa e getta o fast fashion è un sistema lineare che non prevede il ricilo o riutilizzo dei capi, tutto dovuto al fatto che la disponibilità è enorme e i prezzi sono bassissimi.
In questo modo la vita dei capi è di una stagione, in alcuni casi anche meno.


Il costo del capo non deve essere valutato soltanto in base ai materiali e alla manodopera (spesso sottopagata) ma anche in base al costo per l’ambiente.


Negli ultimi giorni anche sulle testate giornalistiche nazionali ( qui l’articolo sul sito rainews) si è parlato delle discariche presenti in tutto il mondo.


Discariche dove finiscono gli abiti che sono gli scarti dell’industria della moda e quindi si parla di fast fashion inquinamento in Cile ad esempio, diventato polo internazionale per la raccolta dei capi invenduti, prodotti in Cina, in Bangladesh e provenienti da Asia, Stati Uniti ma anche dall’Europa.


Delle circa 59000 tonnellate di vestiti che arrivano ogni anno una parte finisce nei negozi del Cile come abiti usati ma molti rimangono invenduti (circa 39000 tonnellate) e finiscono in queste discariche nel diserto.

Gli sprechi nella moda

Fast fashion, la moda dello spreco

Non si tratta certo di un segreto di stato, anzi. Si tratta di una verità abbastanza lapalissiana, che sta sotto gli occhi di tutti. Basta scorgersi un poco per poterla osservare: se, ogni anno, comprassimo collettivamente, qualcosa come 80 miliardi di nuovi capi di abbigliamento, ne dovremmo poi buttare, per fare spazio negli armadi, praticamente la stessa identica quantità. È un gioco a somma zero o se preferite una mera questione di spazi.

The True Cost. Il prezzo della moda

fast fashion

È da questa considerazione che nasce e prende forma The True Cost, un documentario scritto e prodotto negli USA e totalmente incentrato sul mondo della moda. Si tratta di un’inchiesta che cerca di rispondere a una domanda apparentemente semplice: chi è che paga davvero il prezzo per il nostro abbigliamento? A volte, scopriremo guardando il documentario, l’essere umano nella sua accezione di homo-consumatore, può essere davvero il peggior nemico di se stesso.
Secondo The True Cost, viviamo acquistando qualcosa come il 400 per cento in più di abbigliamento di quanto abbiamo fatto negli ultimi venti anni! Le cause? Sono molteplici e tutte ben spiegate all’interno del documentario. Certamente la maggior di parte di esse sono da ricercare nella caduta dei costi di produzione (e di conseguenza di acquisto) dei capi d’abbigliamento.

Da un grande consumo derivano grandi responsabilità

Ovviamente questo massiccio consumo porta con sé delle conseguenze che si rivelano in diversi modi in tutto il mondo, si pensi ad esempio allo sfruttamento della mano d’opera nei paesi in via sviluppo, e il documentario cercherà di svelarcele.
“Sono dell’opinione che che dopo ogni grande cambiamento, in qualsiasi settore esso avvenga, ci voglia del tempo per comprendere prima e studiare poi cosa è realmente accaduto”. A dirlo è Christina Dean, fondatore e CEO di Redress, un’organizzazione che focalizza il proprio core business sulla promozione della sostenibilità ambientale nell’industria della moda. Prosegue la Dean: “Penso che ora sia necessario e inevitabile un cambiamento, perché non si può negare che l’industria della cosiddetta fast fashion sta avendo un impatto enorme sui paesi in via di sviluppo”.

80 chili di rifiuti tessili in un anno

The True Cost sottolinea come il cittadino americano medio sia in grado di gettare circa 80 chili di rifiuti tessili ogni anno e di non pensare assolutamente al riciclaggio vestiti.

Questa cifra, moltiplicata per tutti i cittadini statunitensi significa oltre 11 milioni di tonnellate di rifiuti in più soltanto negli Stati Uniti d’America. La maggior parte di questi tessuti inoltre non sono biodegradabili e per questo rimarranno accumulati nelle discariche per un periodo di tempo indeterminabile ma che si può stimare attorno ai duecento anni, oltre che impattare l’ambiente con l’immersione di gas nocivi nell’aria.

“Basta posare il proprio sguardo dentro una discarica” aggiunge la Dean, “per verificare personalmente come la quantità di abiti e tessuti gettati via sia in costante aumento, sopratutto nel corso degli ultimi dieci anni , come una sorta di coda lunga e sporca nel settore della fast fashion”.

fast fashion, la moda dello spreco
La fast fashion, la moda dello spreco è la tendenza da cui prende forma The True Cost, un documentario inchiesta totalmente incentrato sul mondo della moda.

No alla moda dell’usa e getta

Secondo Lucy Siegle, il produttore esecutivo di The True Cost, pur sapendo che la nostra società sta esaurendo molte delle nostre risorse naturali e pur conoscendo l’imminente necessità di rendere il mondo un luogo migliore dove vivere, partendo magari proprio dall’ambiente che ci circonda, i consumatori continuano a sostenere la fast fashion.
“In questo modo” dice la Siegle “ci avviciniamo sempre di più al declino della nostra specie e metaforicamente gettiamo nel cestino anche gli ultimi residui di natura incontaminata e non curandocene sembriamo decisi a continuare a produrre sempre più materiali usa e getta. Non ha senso. La moda non deve mai e poi mai essere pensata come un prodotto usa e getta”.

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